La disciplina legale in materia di recesso dal rapporto professionale presenta un notevole squilibrio in favore del cliente. Quest’ultimo infatti, a norma dell’art. 2237 c.c., ha il diritto di recesso ad nutum, mentre il professionista può recedere dal contratto professionale soltanto per giusta causa.
Tale assetto è dovuto al rilievo che il legislatore ha assegnato al carattere fiduciario dell’incarico, consentendo così al cliente di sciogliere il rapporto a prescindere da qualsiasi giustificazione. Il professionista invece può recedere dal contratto soltanto per giusta causa, ed in ogni caso non deve arrecare pregiudizio al cliente.
La “giusta causa” di risoluzione del contratto d’opera professionale, che presuppone la lesione del vincolo fiduciario in capo al professionista, rappresenta un concetto piuttosto ampio e di individuazione non univoca.
Il Codice deontologico dei Consulenti del Lavoro (delibera CNO del 3.10.2008) prevede diverse ipotesi legittimanti il recesso
-quando ad esempio siano richieste prestazioni contra legem (artt. 21 e 27),
-quando insorgano interessi personali in conflitto con quelli del cliente (art. 22),
-quando il Consulente del Lavoro sia privato o condizionato nella libertà della propria condotta (art. 27).
Incombe in ogni caso sul professionista l’onere di dimostrare, oltre la sussistenza della giusta causa (e quindi la legittimità delle ragioni addotte per recedere dall’incarico), il risultato utile derivato al cliente in conseguenza della sua opera per pretendere il compenso, pena la sua responsabilità per il risarcimento del danno causato (Cass.civ.sez. II, 16 marzo 2011, n. 6170). Il diritto di recesso è infatti riconosciuto in capo al professionista in applicazione del principio di buona fede oggettiva, da esercitare con modalità tali da evitare al cliente il pregiudizio dell’improvvisa rottura del rapporto, inviando con anticipo una lettera di rinuncia incarico professionale, anche concedendogli il tempo necessario a provvedere agli interessi sottesi al contratto (Cass.civ.sez. II, 23 aprile 2014, n. 9220).
Lo squilibrio della disciplina legale è tuttavia suscettibile di deroga pattizia, che deve risultare dalla manifestazione della volontà delle parti univoca ed espressa. È perciò opportuno inserire nel mandato professionale una clausola risolutiva espressa così come quella penale.
Attraverso la prima è possibile qualificare – in concreto – la giusta causa che legittima il recesso del professionista dall’incarico (individuandola ad esempio nel mancato rispetto delle modalità di pagamento puntualmente concordate). La clausola penale consente invece, previa rinuncia del cliente alla libertà di recesso, di fissare, con altrettanta certezza, le conseguenze economiche del mancato rispetto del regolamento contrattuale e del recesso ante tempus da parte del cliente, sottoponendolo al pagamento di una penale di natura economica, predeterminato nella misura.